"E' BÉ"
L'epopea del vino di Romagna:..."E' bé" ha accompagnato la vita dei romagnoli da alcuni millenni, come hanno scritto autori latini sottolineando la grande produttività delle terre di Romagna. Un pregio che poi si è paradossalmente rivelato un handicap per la qualità:...e così la riscossa dell'enologia romagnola degli ultimi dieci anni, rappresenta il riscatto del Vigneto Romagna sulla strada dell'eccellenza...
Tra il ‘700 e la metà del ‘900 infatti l’interesse dei romagnoli è stato rivolto principalmente a
produrre quanto più uve e vino possibile. Ciò per far fronte alla pessima qualità dell’acqua: in pianura dai pozzi artesiani saliva acqua e sabbia; in collina il pozzo e la buca del letame si trovavano spesso a poca distanza l'uno dall'altra con conseguenti infiltrazioni. Per questo attorno al 1880, in Romagna il consumo medio annuale per abitante era di 149 litri di vino contro un consumo medio nazionale di 95 litri: e così si spiega
perché in Romagna e’ bè, il bere, identifica tout court il vino. E’ un sistema di vita che ha creato uno stretto intreccio tra gli uomini e il vino, visto come alimento ed apportatore di forza e di calore, insieme al piacere che sa dare al palato e all’animo, facendo dimenticare fatica e amarezze. Era tale l’importanza del vino nella cultura e nella civiltà contadina che lo ritroviamo in moltissimi proverbi, modi dire e tradizioni. Basti ricordare il detto che affermava:
Sanzvés, Aibâna e Tarbiân/i fa l’om sân (Sangiovese, Albaan e Trebbiano /fanno l’uomo sano) oppure la consuetudine che la mattina di Natale vedeva il contadino versare un bicchiere di Sangiovese ai piedi di una vite affinché, per il principio della magia imitativa, ne producesse poi in grande quantità.
Negli ultimi trent’anni c’è stato in Romagna un rinnovamento generazionale dei produttori che ha favorito l’introduzione di nuove e moderne tecniche di coltivazione della vite e di vinificazione. In questa nuova dimensione di vigneti specializzati, di nuovi vitigni e di moderne tecnologie enologiche i vini più apprezzati sono comunque ancora quelli legati al territorio e alla sua gente e cioè i vini che ne riflettono ambiente, clima e storia:
Romagna Albana DOCG, Romagna Sangiovese DOC, Romagna Trebbiano DOC, Romagna Pagadebit DOC e Romagna Cagnina DOC
L’
Albana è il vino della festa e dei riti . E’ il vino che si offre all’ospite e quando nasceva una bambina se ne preparavano sei bottiglie da aprire il giorno del suo matrimonio. Abbinamenti nel nome della gentilezza, nati forse da quel suo colore chiaro dorato che rimanda alla leggerezza e alla delicatezza come rilevava Vincenzo Tanara in un tratto del 1674:
“L’Albana pare che tenga per il primo luogo in far Vino delicato”.
E forse per questo la storia bimillenaria di questo vino – prodotto solo in Romagna nelle tipologie secco, amabile, dolce e passito con marchio Docg – si intreccia spesso con quella delle donne. Cominciando dalla leggenda sull’origine del toponimo
Bertinoro. Si narra che la principessa ravennate
Galla Placidia sostasse con il suo seguito sul colle di Bertinoro, i cui abitanti le offrirono in una ciotola di terracotta il biondo vino del posto, l’Albana. Galla Placidia fu deliziata da quel vino ed alzando la ciotola esclamò “
Non così umilmente ti si dovrebbe bere, bensì berti in oro”, da cui il toponimo.
A proposito di Bertinoro si ricorda che
Giosué Carducci, quando era ospite della contessa Silvia Pasolini-Zanelli nella sua villa di Lizzano di Cesena, si faceva spesso portare in carrozza nella piazzetta di Bertinoro dove, senza scendere, amava centellinare con grandissimo piacere un bicchiere l’Albana che gli porgeva la solerte contessa. Un assaggio che lo deliziava e gratificava a tal punto che lui, anticlericale, magnificò in versi la vicina chiesa di Polenta. E c’è da chiedersi cosa succederebbe se potesse assaggiare un bicchiere di
Albana Passito di oggi, in grado di tenere testa ai migliori passiti italiani.
Sembra proprio che l’Albana abbia il pregio di colpire poeti e letterati. Come
Marino Moretti secondo il quale, quando scende nel bicchiere,
“brilla più bella dell’oro e più fluida di una matassa di luce” e alla quale ha dedicato la poesia Albana in tazza d’oro che sembra quasi una risposta all’invocazione di Galla Placidia nell’atmosfera di una Romagna insolitamente silenziosa, malinconica e sognante:
“O locandiera, intenta ad un lavoro/ d’uncinetto, vi chiedo per piacere/ di dare all’ultimo ospite da bere/ la vostra Albana nella tazza d’oro!// Dolce l’Albana, fresca la locanda,/ e cortese e devota la padrona./ E c’è di là un odor d’erba limona,/ e c’è di qua il sentor della lavanda.// E ci sono i gerani e la cedrina/ nel testo verde, e i mobiletti frusti/ e Garibaldi e il Passatore e Giusti/ alle pareti …e c’è la signorina.”
Il vino romagnolo per eccellenza è il
Sangiovese di Romagna nel quale si riflette la forza ed il calore dei romagnoli ed anche, in certe note di morbidezza e nel sottile profumo di viole, la tenerezza dei loro sentimenti. Per questo lo consumavano in grande quantità, anche accompagnando il pesce, come ricorda un amico di
Giovanni Pascoli in occasione di un incontro conviviale: “
A Bellaria ci attendeva un risotto coi fiocchi e pesce sapientemente cotto sulla graticola dalla formosa e buona Zaira della trattoria ‘La Speranza’. E si bevve il sangiovese rosseggiante e frizzante nei verdi fiorati boccali del tempo del Papa”.
L’origine del Sangiovese è incerta, controversa e contesa tra Romagna e Toscana. I romagnoli avanzano un’ipotesi tanto suggestiva per quanto ammantata di leggenda. Anche se a proporla è stato un glottologo serio come
Friedrich Schürr che studiò a lungo il
dialetto romagnolo.
Secondo Schürr la denominazione del vitigno del Sangiovese deriverebbe da Monte Giove, o Collis Jovis, un'altura che si trova nei pressi di Santarcangelo, in provincia di Rimini. Collina sulla quale esisteva un convento di frati che coltivavano anche la vite. Nel corso di un banchetto, un ospite di riguardo al quale i monaci avevano servito il loro miglior vino rosso chiese come si chiamasse quel delizioso nettare. Nessuno lo sapeva, ma un frate ebbe un guizzo di mente e coniò all'istante il nome di Sanguis Jovis che, per contrazione divenne poi Sangiovese.
E per solennizzare questa nascita, nel 1976 trascinati dall'iniziativa e dalla passione di
Alteo Dolcini, il
Tribunato di Romagna, l’
Ente Tutela Vini di Romagna, la Società del Passatore e
l'Associazione Italiana Sommelier collocò sul Monte Giove una lapide con la scritta "
Qui sul colle/ che di Giove ha il nome/oggi XXIX ottobre MCMLXXVI/ la Romagna dei Vini/ e dei vigneti/ recinge la fronte del nume/ con l'aureola/ del San-Giovese/ rivendicandone/ con certezza di fede/ la feconda primogenitura". Poi, attraverso l’occupazione della Romagna subappenninica da parte dei Medici il vitigno del Sangiovese si diffuse anche in Toscana.
Gli ampelografi sono tuttavia abbastanza d'accordo nell'affermare che il Sangiovese abbia avuto origine in Toscana e tra il XV e XVI secolo abbia fatto la sua comparsa in Romagna in seguito all’espansione di Firenze al di qua dell'Appennino. Una conquista che per alcuni secoli influenzò tutte le attività umane, compresa l'agricoltura, nell’area conosciuta come la
Romagna Toscana dalla forma triangolare con la base formata dal crinale dell’Appennino e i lati che partono da Firenzuola e da Verghereto per incontrarsi a pochi chilometri da Forlì, nel vertice di
Terra del Sole, la città ideale creata nel 1564 dagli architetti dei Medici “a misura d’uomo” con un sapiente rapporto tra spazi e volumi basato sui principi leonardeschi che stabilivano “sia la larghezza delle strade pari alla universale altezza delle case”. Terra del Sole è la esemplificazione dei frutti dell’incontro, o meglio della fusione tra la cultura del Rinascimento fiorentino con quella romagnola o, per dirla in modo più schietto, tra l’asprezza dei luoghi e la ruvidità del carattere dei romagnoli e la gentilezza e l’arte di Firenze.
Qualunque sia l’origine del vitigno Sangiovese è in questa area che ha trovato un terreno ideale di sviluppo per poi diffondersi a tutta la fascia della collina romagnola con risultati ottimi ed originali tanto che un grappolo di Sangiovese campeggia nello stemma del
Comune di Predappio. Ed è tale la sua bontà che, secondo
Dario Zanasi "
Il Sangiovese romagnolo è un vino che meriterebbe un saluto militare. Come fece il generale francese Mac Mahon, davanti al celebre vigneto di Clos-Vougeot".
Alla diffusione si è accompagnata la presenza, via via sempre più netta, di caratteri propri derivanti dal tipo di terreno, dal sistema di coltivazione, dal clima e dall’insolazione. Basti ricordare che la fascia collinare dell’Appennino romagnolo coglie il sole del mattino mentre la corrispondente fascia toscana coglie quello del pomeriggio.
Così che il Sangiovese romagnolo e quello toscano , pur restando imparentati, hanno percorso strade proprie. Più famosa quella toscana, più in ombra quella romagnola,
ma con uno straordinario recupero negli ultimi decenni, come ha riconosciuto il giornalista enogastronomo
Andreas Marz: “
Mi sembra di poter notare come, in confronto ai toscani, questi vini romagnoli siano leggermente più rotondi, più pieni. Forse possiedono un’acidità più bassa e dei tannini più dolci. Sono quasi disposto a scommettere che una degustazione alla cieca tra i dieci migliori Super Sangiovese della Romagna e dieci Super Tuscan a base Sangiovese porterebbe ad una vittoria ai punti dei romagnoli”.
Cosa ormai nota agli addetti ai lavori, che si sta verificando sempre più spesso nelle varie manifestazioni enologiche ed enogastronomiche che pongono a confronto questi
vini cugini...
(Giuseppe Sangiorgi)